Dopo un inizio di stagione super, l’Udinese di Andrea Sottil ha frenato la sua corsa. Nelle ultime 8 gare, infatti, sono arrivati ben 5 pareggi e 3 sconfitte, che hanno fatto scivolare i bianconeri all’ottavo posto in classifica. Discorso simile anche per il numero 9, Beto: 5 delle 6 reti realizzate dall’attaccante portoghese, infatti, sono arrivate nelle prime 8 giornate di campionato. Quando i suoi gol sono mancati, l’Udinese ha spesso faticato, come dimostrano gli ultimi risultati in campionato. E proprio Beto, intervistato per Cronachedispogliatoio, ha rilasciato una lunga intervista: dall’infanzia fino all’affermazione nel mondo del calcio con l’Udinese, le sue parole.
“Beto, se vai male a scuola, ci metto un secondo a toglierti il calcio. E siccome io a scuola non avevo né bei voti, né un buon comportamento, ha più volte chiamato i miei allenatori per avvisarli che non sarei più andato”. Inizia così la lunga chiacchierata con Beto: parole su sua madre, che l’attaccante ha descritto come il capo della famiglia. “Ma io avevo un piano. L’unico piano della mia vita. Il piano Beto: diventare calciatore”. Prosegue il portoghese.
“Il giorno in cui le dissi «Mamma, io non andrò all’Università. Io vado ad allenarmi perché sarò un giocatore di calcio», credo abbia avuto un mancamento. Non ha dormito per una settimana. All’epoca lavoravo al KFC, dentro il centro commerciale di Alcabideche: facevo il cassiere. Quando tornavo da scuola e stavo troppo in doccia, mia madre mi rimproverava: «Beto, guarda che le bollette le pago io! Muoviti!». Con il mio primo stipendio, sono andato da lei mettendo i soldi sul tavolo: «Don’t worry, da oggi anche io do il mio contributo. Adesso vado a farmi una bella doccia».
Il numero 9 ha poi parlato di come ha vissuto il periodo del lavoro: “Sono andato al KFC perché volevo prendere la patente con i miei soldi. Mi divertivo tantissimo. Qualcuno pensa che la mia storia sia stata difficile perché ho dovuto lavorare, ma per noi era normale. Ora sto realizzando il mio sogno, è vero, ma il percorso fuori dal campo non è stato difficile. Era una bella vita anche quella: sveglia presto, dritto al KFC, poi di corsa ad allenarsi e dritto a dormire. Non era un castigo, ero felice. Pagare le bollette al posto di mia madre era come segnare un gol”.
Poi, l’episodio che gli ha cambiato la vita: “La mia storia è cambiata l’estate in cui mi hanno scartato al Benfica. A scuola non andavo bene, mia madre era arrabbiatissima e non mi permetteva di giocare. Le ho detto: «Ti prego, fammi tornare. Ti prometto che mi comporterò bene a scuola». Ma non fu così. E infatti andai in un’altra squadra, ma poco dopo lei mi impedì di continuare. Ero esuberante, combinavo danni uno dietro l’altro. Quell’estate nella mia testa avevo abbandonato il pallone. Non funzionava niente, non andava bene nulla. Un giorno sono andato in spiaggia con i miei amici e ho incontrato Fernando Lopes, il presidente del Tires, la squadra in cui avevo iniziato a giocare.
Mi disse: «Vieni qui che devo parlarti». Mi fece sedere sulla sdraio e iniziò a catechizzarmi: «Beto, ma cosa stai combinando? Tu sei forte, ma devi essere un uomo». Passò un’ora a spiegarmi tutto ciò che stavo sbagliando, concludendo: «Hai sbagliato ad andare al Benfica, torna da noi. Ma devi comportarti bene. Ricordati: al Tires ci interessa che tu e i tuoi compagni sappiate giocare bene a calcio, ma ci importa di più che voi diventiate uomini veri». Ora sono un ragazzo tranquillo, ma un tempo quando qualcosa non mi andava a genio, perdevo le staffe.
L’intervista è proseguita quando Beto ha parlato della sua esperienza al Tires: “Il figlio di Fernando, Luís Lopes, era il mio allenatore. Fu subito chiaro: «Sei forte, dimostralo. Ma dimostra anche di saperti comportare». Mi mandò subito nella squadra B. Solo che continuavo a sbagliare anche lì, quindi mi riportarono nella A.
Luís cambiò la mia vita in due modi. Innanzitutto, si accorse che arrivavo davanti alla porta almeno cinque volte a partita, ma segnavo solo in una o due occasioni. Allora comprò un tubo di palline da tennis e iniziò a farmi calciare con quelle, in tutti i modi e da tutte le posizioni. Mi piace pensare che il primo gol che ho segnato in Serie A, contro la Sampdoria, sia stato grazie a quell’intuizione. Calcio d’angolo, spizzata di Samir e pallone da mettere dentro. Che poi anche lì l’ho colpita male, ma a differenza del passato è entrata dentro.
Inoltre, mi impose una punizione per mettere la testa a posto: avrei dovuto portare per tutta la stagione le borracce piene d’acqua e riempirle ogni qualvolta si sarebbero svuotate. In una delle ultime partite dell’anno, lottavamo per la promozione. La squadra scese in campo per il riscaldamento e tutti si chiedevano: «Ma dov’è Beto?». Sono spuntato quasi a fine riscaldamento con le borracce: «Ma dove diavolo eri?», mi urlò il mister. «Ma ero a riempire le borracce!» Anche se per noi quella era una finale, io non mi ero sottratto. Prima l’acqua per i compagni, poi il riscaldamento. Li avevo presi alla lettera, avevo svoltato“. L’anno successivo, Beto approda in Primavera: un compagno di squadra lo deride, ma lui propone una scommessa: “Vieni qui, facciamo una scommessa. Io tra 5 anni sarò un calciatore professionista. Stringimi la mano. In palio non c’è niente, solo l’onore. Accettò”.
“Cambiai squadra e andai all’Olímpico do Montijo. Quando ho firmato non potevo andare lì gratis lasciando il KFC. Al momento della firma, ho detto al presidente: «Io vengo, ma dovete darmi 400 euro». Ne prendevo 500-600 al mese al KFC, in base alle ore. Mi guardò malissimo: «Prima dimostra di meritarli». Accettai la sfida: la prima partita segnai tre gol, la seconda feci assist e nella terza di nuovo tripletta «Ok Beto, facciamo 350 al mese».
Beto ha proseguito: “Se ci ripenso, mi sembra pazzesco. Era solo 3 anni prima di firmare con l’Udinese. Quanto è cambiata la mia vita in così poco tempo e senza preavviso. In fondo era ciò che volevo: non ho mai avuto un piano B, Solo il piano Beto”.
Non mi sono mai fatto illudere dai gol. Altrimenti è finita. Sapevo che se ne avessi segnati almeno 15, una squadra ancora più grande mi avrebbe voluto. Ne feci 21, quindi top. Così arrivò il giorno della mia rivincita. Soltanto un anno e mezzo dopo quella scommessa, ero tra i professionisti. Destinazione Portimonense. I miei vecchi compagni furono onesti: mi scrissero tutti. «Beto, scusa, avevi ragione!». Insomma, ce l’avevo fatta”.
“In Italia ho scoperto quanto sia bello vivere con il calore dei tifosi. Sono veramente appassionati, gli stadi sono pieni e in trasferta ci seguono in tantissimi. Sono molto legato a loro. Mi chiedono foto ovunque: aeroporto, piazza, Lidl. Quando giochiamo alla Dacia Arena, sentiamo il calore in un modo pazzesco
A Udine ho capito il concetto di squadra. Nei periodi in cui non riesco a segnare, nessuno mi viene contro. Nessuno mi fischia: sento che mi vogliono bene, sanno che il mio momento arriverà. Ultimamente ho avuto dei problemi fisici e spesso sono partito dalla panchina. Contro l’Hellas Verona, ci serviva un gol. Padelli e Nestorovski prima della sostituzione mi hanno detto «Mi raccomando, devi segnare». Ero tranquillissimo: «Ragazzi, ci penso io». Me lo sentivo. Ho preso il posto di Success e quando ci siamo abbracciati a bordocampo, gli ho detto: «Tranquillo Isaac, I am coming. Io arrivo». Appena la palla è entrata sono corso verso la panchina ad abbracciarli, tutti e tre“.
Poi un commento sui social: “Quando segno, mi scrivono i tifosi del Napoli, oppure della Juventus. Dicono «Grande Beto! Vieni da noi!». Guardo il telefono e rido: «Ma come? Con tutti gli attaccanti forti che avete, volete davvero Beto?». Corro e non voglio fermarmi. Quando ho raggiunto i 33 chilometri orari di scatto, mi sono posto come obiettivo i 37. Darwin a Liverpool ha raggiunto i 38 chilometri orari. Attualmente non ci riuscirei. Ma non c’è un modo per allenare la velocità: corri, e basta. Preferisco essere veloce e scarso, che intelligente ma lentissimo. Se sei veloce e poco intelligente, puoi cambiare di testa e imparare. Ma se sei lento… sei morto! Non ci arrivi. Quindi lasciatemi così, veloce e pazzo“.
Il portoghese ha poi parlato del suo idolo, Samuel Eto’o, per cui nutre una vera e propria passione: “Tutti i miei amici sanno che io amo Eto’o. Per me non è un semplice idolo: a tutti piacciono Messi e Ronaldo, io Eto’o proprio lo amo. Quando al parco giocavamo con il pallone, fingevamo di essere i grandi campioni. Tutti si impegnavano per scegliere i migliori, io invece non ho mai avuto dubbi. «Ragazzi, io vado in attacco. Sono Eto’o». In quegli anni sono diventato Beto’o, avevo un quaderno in cui mi firmavo solo così. Lo sfondo del mio computer era Eto’o. Nella mia camera c’era Eto’o. Il mio numero di maglia era quello di Eto’o. Tutto il mio mondo era Samuel Eto’o.
La prima volta in cui ho saputo della sua esistenza, lo ignoravo. Non guardavo le partite da piccolo, ma quando iniziai a giocare un allenatore mi disse: «Tu devi prendere la numero 9, come Eto’o». E io: «Chi?». Pochi giorni dopo si giocava a Roma la finale di Champions League tra Barcellona e Manchester United. Volevo guardarla perché giocava questo Eto’o. Andai fuori dalla casa di uno dei miei migliori amici e la spiai dalla finestra. Si vedeva il televisore. A un certo punto vedo questo giocatore che punta, fa uno scatto, scarta tutti e segna. Poi esulta indicando il colore della pelle. Da quel momento ho deciso di voler essere come lui“.
L’attaccante bianconero ha concluso l’intervista svelando la sua fede calcistica: “Sono un tifoso del Chelsea. Quando ho saputo che avevano acquistato Eto’o sono impazzito: se lo incontro mi metto a piangere”.